EDITOR'S LETTER

ISSUE 01

Che la forza sia una questione ancora tutta da indagare e di gran rilevanza filosofica e politica è un’intuizione che prende forma già nell’opera di autrici che hanno messo al centro delle proprie riflessioni i temi della violenza e del conflitto. Simon Weil pone il concetto di forza come fulcro e cardine della storia occidentale, equiparandola quasi completamente alla violenza. La forza è un agente cieco e impersonale, che si esprime attraverso i corpi e le menti, guida ideologie, religioni, politiche, economie. Come la gravità, spinge verso il basso e opprime chiunque sia preso nelle sue dinamiche. Crea sempre gerarchie, in cui l’unica soggettività degna di questo nome è quella del ‘più forte’, fisicamente, intellettualmente, culturalmente. Perché la forza-violenza è sempre materiale, dice Weil, anche quando non è agita direttamente dai corpi: anche se lo fa in forme più sottili, il suo scopo è sempre quello di sottomettere. Apparentemente consegna supremazia a un vincitore, ma in realtà schiaccia anche questo in un destino di eterna sopraffazione. Nessuno possiede la forza, ma da essa si è posseduti. Tuttavia, anche in una visione così negativa, si aprono spiragli inattesi, in cui si fa strada l’idea che esista una dimensione della forza che non solo non coincida con la violenza, ma che sappia tenerle testa, sconfiggerla: Afrodite è in grado di controllare Ares. E sarà proprio l’esperienza di donne che hanno deciso di esplorare un senso differente della forza a partire da sé, dalle proprie corpo-realtà non scisse, inaddomesticate, come suggerisce la filosofa femminista Angela Putino, che aprirà nuovi scenari, riscriverà i codici di una ‘funzione guerriera‘ femminile come capacità trasformativa per tutte e tutti. La forza, intesa come capacità combattente, non è generalmente considerata un attributo delle corpo-realtà femminili. A meno che non la si consideri in un’accezione ampia, o metaforica, la forza è stata al contrario usata per definire una delle più centrali caratteristica della mascolinità. In una logica che procede per opposizioni rigide e binarie, come quella spesso usata nel pensiero cosiddetto occidentale, ciò che caratterizza un genere non appartiene all’altro. Per questa ragione, le concettualizzazioni e le pratiche relative alla forza sono rimaste per la gran parte un dominio maschile, relegando le donne nella definizione di sesso debole.

 

Sempre per la stessa ragione, una feroce condanna colpisce quelle donne che hanno scelto di sottrarsi a questo destino di ‘inferiorizzazione’, cercando vie per smentire l’assunto che la proprio corpo-realtà sia intrinsecamente debole, ovvero inadatta ad essere assertiva, combattiva, forte. Tacciate di essere virago, sono state criticate come donne che tradiscono la propria femminilità per emulare atteggiamenti violenti. Al contrario, è la dimensione della ‘cura’, come criterio di azione e di relazione che l’esperienza delle donne riconsegna all’umanità. Ma veramente forza e cura si pongono in un contrasto insanabile? Possiamo pensare a una forma di forza che non sia violenta, pur rimanendo combattente? Una forza, fisica, mentale, emozionale, sociale, culturale, politica che sappia contrastare efficacemente la violenza?

di Arianna Pietrostefani