
Ma con un abito migliore
Ma con un abito migliore
SETTEMBRE 2025 - SIXTH SENSE

«Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better » («Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio»).
La frase scritta nel 1983 da Samuel Beckett nel racconto Worstward Ho è diventata un mantra motivazionale per post-it da appiccicare allo specchio del bagno, ma non si dice che quella massima viene sempre citata in maniera parziale. Quello che sembra un inno potente all’ottimismo e alla voglia di migliorare, poche righe dopo assume un significato diametralmente opposto: non un inno alla capacità di mettersi in gioco e rischiare, ma un’amara considerazione sulla vita, sullo stress e la frustrazione che la nostra società ci impone.
Ammettiamolo: tutti abbiamo paura di non raggiungere i nostri obiettivi. La sconfitta, in qualsiasi campo, ci lascia un senso di vuoto perché ci costringe a un confronto con le nostre incapacità.
Nel mondo della moda il fallimento è uno di quei temi che nessuno vuole toccare, un po’ come l’abito di poliestere in fondo a tutti i nostri armadi: scomodo, impresentabile, ma in un certo senso inevitabile. Nessuno ama parlare apertamente di collezioni che non vendono (più), di aziende che crollano sotto il peso di amministratori delegati ossessionati dal profitto, di fashion designer che si comportano come direttori di una orchestra stonata e dei loro sogni che si infrangono contro la muraglia dell’indifferenza dei mercati.
Eppure. Eppure, proprio qui, nel guazzabuglio del “non detto” si annida la forza trasformativa e dinamica della creatività. L’errore – che poi nasconde l’incubo del cambiamento – non è solo un’ombra cupa che aleggia sul fashion system.
Come scriveva Roland Barthes, «il vestire vive nell’illusione del nuovo», ma quest’illusione può esistere solo se accettiamo il rischio di compiere un passo che si rivelerà magari falso o azzardato. Sì, la moda vive un continuo paradosso: un’industria ossessionata dal futuro teme le mutazioni come un gatto teme l’acqua.
Il filosofo Pierre Bourdieu, con il suo concetto di habitus, ci insegna che ogni sistema culturale è il prodotto di un campo di forze in continuo movimento. Quando queste forze si sbilanciano, quando il campo implode sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, è allora che nascono le opportunità. L’habitus può essere definito come “necessità fatta virtù”, è l’insieme di schemi di pensiero che media le scelte degli individui. Ma l’habitus è anche produttore di storia, poiché genera pratiche individuali e collettive «conformemente agli schemi generati dalla storia».
Lo vediamo oggi: un sistema estetico-commerciale sempre più alienato dai suoi valori fondanti governato da Ceo che rincorrono una crescita infinita in un mondo dalle risorse finite. Il risultato è un’industria che corteggia il collasso, non solo per ragioni economiche, ma anche e soprattutto per la perdita di senso: che cos’è la moda, se non un linguaggio? E che cos’è un linguaggio, se non può più raccontare?
di Antonio Mancinelli
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