ARCHITETTURE ABITABILI E NO
ARCHITETTURE
ABITABILI E NO
Anche a noi, come al Nanni nazionale, la cosa che più piace è vedere le case
APRILE 2024 - SGUARDI
“La cosa che mi piace più di tutte è vedere le case. Anche quando vado nelle altre città l'unica cosa che mi piace fare è guardare le case. Bello sarebbe un film fatto solo di case: panoramiche su case.”
Nanni Moretti
A pronunciare queste parole è il Nanni Moretti di Caro diario, alter ego piuttosto fedele del regista, che affida a questo film alcune delle sue più ineffabili stranezze.
Che in effetti si tratti di una stranezza, questo amore morettiano per le case, è una certezza che colpisce all’improvviso chi, come la scrivente, ha sempre associato l’amore per il mattone alla borghesia e, di conseguenza, a certa destra un po’ conservatrice – quello che si chiama “ceto medio riflessivo”. Ossia quello che, per fare un esempio, Carlo Goldoni dileggia in La casa nova (1760), commedia sarcastica che prende di mira proprio la passione borghese per le case.
Eppure, questa passione – che si pensa anche un po’ frivola, come spesso accade a quella per la moda – ha mietuto vittime illustri e numerose, anche nelle più alte sfere delle patrie lettere. Prendiamo ad esempio quello che è un tipico rappresentante dell’intellighenzia italica, Mario Praz. Insigne studioso, saggista esperto del periodo napoleonico, scrittore, traduttore, giornalista e fanatico collezionista di arredi, soprammobili, quadri – soprattutto i cosiddetti conversation pieces che ritraggono interni domestici – oltre che estensore di uno dei testi immancabili in una bibliografia del design che si rispetti, La filosofia dell’arredamento (cui si è affiancato, nel 1975, il piccolo gioiello, ora purtroppo esaurito, La casa della vita).
Nel volume, Mario Praz si spinge persino a scrivere – nero su bianco – quello che pochi intellettuali confesserebbero: «Come in ogni altro campo così per l’arredamento, gli uomini si dividono in due classi: gli uomini che tengono alla casa; uomini che non ci tengono affatto. Io mi sento assai più vicino a quella tale moglie di Zaccaria di cui parla W. Hale White in Revolution in Tanner’s Lane, che non poteva sedere tranquilla se un ornamento del caminetto appariva spostato.»
E, se non bastasse una simile dichiarazione per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sulla dignità degli studi intorno al design e all’architettura, ecco giungere i rinforzi di Felix Schwartz, architetto svizzero, con un’asserzione tanto lapidaria quanto ontologicamente vera: «L’architettura è l’espressione più chiara della volontà, delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo servendosi direttamente dell’architettura, ne è direttamente influenzato.» Una dichiarazione impossibile da smentire, come dimostra – fortunatamente solo su carta – il Panopticon di Jeremy Bentham.
Se fin qui però ci siamo concentrati a parlare di case, luoghi in cui si vive, arredamento e mobilio, che dire invece di quello che – come nota giustamente Marco Belpoliti nel suo intervento sul catalogo di Architetture inabitabili (alla Centrale Montemartini di Roma fino al 5 maggio) – “è stato costruito ma non è destinato ad essere abitato”? Pur non contemplando la dimensione dimorativa, infatti, i luoghi scelti per tracciare la parabola espositiva della mostra romana stabiliscono nuove forme di presenza e interazione con l’uomo.
Un esempio perfetto, dunque, per rappresentare il tema della forma e della funzione scelto per questa issue. A chiarircelo, giunge La dea bianca di Andrea Canobbio, sempre dal catalogo edito da Marsilio, racconto sul Lingotto che scrive della sua stessa storia: «Io sono la forma pura, il solido perfetto.» Una fierezza immutabile e anche un poco ottusa, cui si contrappone la rarefazione delle case di Gibellina che, nella fredda notte del 14 gennaio 1968 raccontata da Stefania Auci in Pietre e silenzio, crollarono su sé stesse «tornando a essere pietre, pezzi di legno, chiodi».
di Enrica Murru
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