UN SACRIFICIO SULL’ALTARE

GIUGNO 2025 - SGUARDI

Kiki Boots, Marc Jacobs – Photo: Marc Jacobs website

La moda contemporanea sta attraversando un periodo di profonde contraddizioni, dove l’esclusività non è più solo un privilegio dell’haute couture, ma ha invaso anche la quotidianità. E in un’epoca in cui ogni aspetto della nostra vita è stato trasformato in un simbolo di status, l’industria della moda ha amplificato questa logica, diventando sempre più inaccessibile. Ma che cosa significa, realmente, quando anche una t-shirt o un paio di jeans raggiungono prezzi che sfiorano il ridicolo? Negli ultimi anni, il ready-to-wear ha subito una metamorfosi che lo ha reso quasi indistinguibile dall’haute couture, trasformando passerelle e boutique in un terreno fertile per strategie di branding che sfruttano il desiderio di possedere qualcosa di esclusivo, anche a costo di svuotare di significato la moda stessa. Un fenomeno che solleva interrogativi non solo sull’accessibilità economica, ma anche sull’essenza della moda come strumento di espressione quotidiana.

È stato facile, da parte dei brand, aumentare i prezzi – come ha ribadito Andrea Guerra, CEO di Prada – ma quando i potenziali clienti non riescono a percepire il valore di un prodotto nel prezzo effettivo, iniziano i problemi. Questo perché, per ammissione dell’amministratore delegato stesso, la maison avrebbe fallito nel “far innamorare” il pubblico dei propri prodotti, portando a un allontanamento, potenziato dai cartellini troppo alti. Perché chiedere a un cliente di pagare di più lo stesso prodotto che negli anni è rimasto invariato? Il gioco non vale più la candela, insomma, e la retorica presentata dai marchi di moda come “evoluzione del lusso”, sta in realtà deformando il concetto di abbigliamento, trasformando il semplice indossare in un atto di segregazione sociale. E quando una t-shirt costa quanto una bolletta mensile, è legittimo domandarsi se la moda non stia cannibalizzando la propria accessibilità in nome di un profitto miope.

 

E quando una t-shirt costa quanto una bolletta mensile, è legittimo domandarsi se la moda non stia cannibalizzando la propria accessibilità in nome di un profitto miope.
E quando una t-shirt costa quanto una bolletta mensile, è legittimo domandarsi se la moda non stia cannibalizzando la propria accessibilità in nome di un profitto miope.
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The Zero Sneakers, Balenciaga – Photo: Joshy Dunn / Balenciaga website

Per non parlare di come questa dinamica alimenti un mercato secondario iper-competitivo, quello dell’abbigliamento d’archivio e del second-hand. Negli ultimi anni, infatti, l’archive fashion è passato da nicchia di collezionisti a fenomeno mainstream. Pezzi storici di Vivienne Westwood, Maison Margiela o John Galliano sono ora battuti all’asta per cifre astronomiche, trasformandosi in veri e propri asset finanziari. L’ironia è evidente: ciò che un tempo era prodotto per rompere le regole del lusso ora è relegato a un piedistallo inaccessibile. E anche il vintage, che fino a qualche anno fa era simbolo di ricerca e versatilità, si è ormai trasformato in un campo d’élite. Come più volte ha ribadito Raf Simons, la moda d’archivio dovrebbe rappresentare un rifugio in un’epoca di fast fashion e iperproduzione. Tuttavia, questo rifugio non accoglie tutti. L’aumento della domanda ha spinto i prezzi alle stelle, e ciò che era un’alternativa al consumismo sfrenato è diventato ora un mercato esclusivo. Piattaforme come Vestiaire Collective e Grailed sono state fagocitate dalla corsa al rialzo, lasciando i giovani appassionati di moda sempre più frustrati. Ed ecco che la moda si trasforma in una caccia al tesoro, un trofeo da ostentare, un gioco di prestigio, un atto di apparenza. È il piacere di possedere l’inaccessibile e far parte di una cerchia ristretta, e chi non può permettersi certi capi resta escluso da una narrazione che ormai è dominata da simboli.

A rendere il tutto ancora più assurdo, la costante ondata di abiti paradossali e scomodi – firmati Balenciaga, KidSuper, Di Petsa e altri ancora – che non sembrano avere alcuna ragion d’essere al di fuori di una mera provocazione estetica. Le tendenze più hot degli ultimi anni hanno visto la proliferazione di abiti che sfidano ogni convenzione di comfort e praticità, totalmente distaccati dal loro scopo primario: vestire le persone. Basti pensare alle nuove Zero Shoes di Balenciaga, il trionfo del minimalismo con una suola che copre solo alluce e tallone, o alle sneaker Reptile con la punta arcuata, che sfida la forza di gravità. Ma anche alle strutture a gabbia di Rick Owens, ai tubini che intrappolano le braccia della FW24 di McQueen, alle maniche lunghissime dei capispalla di JW Anderson o ai Kiki Boots vertiginosi di Marc Jacobs. Sono abiti e accessori che, per quanto impattanti e di tendenza, non sono stati pensati per il corpo ma per l’occhio di chi guarda, e in questo, la moda si fa arte da museo – o da circo. Il risultato è una disconnessione crescente tra i creatori e i consumatori, in cui l’indossabilità viene sacrificata sull’altare del concept. Si potrebbe controbattere che questa è la vera essenza dell’arte, ma è altrettanto vero, tornando al tema della funzionalità, che la maggior parte del pubblico non è disposto a pagare cifre esorbitanti per capi che non rispondono a esigenze pratiche. E poi, c’è un luogo per tutto: se un red carpet è pronto ad accogliere gli esercizi di stile più disparati, la quotidianità necessita di opzioni più realistiche, di cui parecchi brand, ultimamente, sembrano essersi dimenticati.

Ma in un’era in cui ogni aspetto della nostra vita è stato trasformato in un prodotto di consumo, il lusso è diventato il paradosso di un’industria che si presenta come innovativa, ma che in realtà è prigioniera delle sue stesse contraddizioni. Ed è per questo che si sta facendo strada un bisogno urgente di ripensare la moda come qualcosa di più concreto, più umano: tornare a questo concetto basilare potrebbe essere la chiave per la riconnessione con la realtà. Un ritorno all’autenticità potrebbe essere l’unica strada per liberare la moda da questo circolo vizioso e restituirle la sua funzione originaria: vestire e dare piacere nel farlo.

di Silvia Trevisson Zardini