
COPIA CONFORME
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LUGLIO 2025 - TALKS

Il giorno in cui Walmart ha lanciato la sua versione della Birkin di Hermès, un’icona del lusso si è trasformata ufficialmente in un fenomeno culturale. Il successo del dupe per eccellenza ha semplicemente confermato una realtà ormai evidente: non è più il marchio a conferire valore, ma la riconoscibilità dell’oggetto. La borsa più desiderata al mondo ha smesso di essere un simbolo di esclusività per diventare un’estetica, riproducibile all’infinito nell’algoritmo.
Ma non si tratta semplicemente di una Wirkin: questa trasformazione riflette un cambiamento più profondo nella moda contemporanea. Il lusso è in crisi, e non solo dal punto di vista finanziario. Da un lato, il costante aumento dei prezzi lo ha reso sempre più distante dal consumatore medio; dall’altro, il ritmo insostenibile delle collezioni ha impoverito la sua capacità di creare desiderio. La moda non è più costruita sulla solidità di un brand, ma sulla velocità di un trend. E in questo nuovo paradigma, l’autenticità ha perso il suo valore originario.
Nella società iper connessa, l’identità non si costruisce più sul possesso materiale, ma attraverso la sua rappresentazione. Possedere o sembrare di possedere, nel mondo dell’immagine, ha lo stesso significato, perché ciò che conta non è la realtà dell’oggetto, ma la sua percezione collettiva. Un accessorio di lusso, vero o falso, ha valore solo nella misura in cui è riconoscibile, condivisibile, capace di comunicare status e appartenenza.
Nella moda, come nella cultura popolare, i vestiti non sono mai semplici abiti. Ogni accessorio porta con sé un valore simbolico che va oltre la sua funzione: rappresenta status, aspirazioni e identità. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella sottocultura più discussa degli ultimi anni: i maranza. Per loro, il dupe non è solo un’imitazione, ma una dichiarazione di appartenenza.
Ispirati dagli idoli della scena trap, i maranza, come ogni sottocultura che si rispetti, fanno della moda un codice di identificazione. Il logo – che sia Louis Vuitton, Gucci o Dior – non ha bisogno di essere autentico per avere valore, anzi, forse è proprio il contrario. L’imitazione dei beni di lusso assume un doppio significato: da un lato, rappresenta l’aspirazione al successo e il desiderio di riscatto sociale; dall’altro, diventa un simbolo di appartenenza alla strada, un’identità ribelle che trova nella trasgressione una forma di riconoscimento. Indossare un borsello monogrammato o un cappellino con un logo vistoso non è solo una scelta estetica, ma un’affermazione sociale.
In questo gioco di significati, il falso diventa più autentico del vero, perché ridefinisce l’originale all’interno di nuove identità. Secondo chi scrive, però, la vera novità non è nell’appropriazione, che ha precedenti illustri, ma nella reazione del lusso stesso. Se un tempo i brand restavano distanti per preservare la loro esclusività, oggi – complice la crisi e la necessità di ampliare il pubblico – cercano un allineamento strategico con la strada. Un esempio evidente è la proliferazione di sneaker ispirate a modelli iconici dello streetwear, ma firmate direttamente dalle maison.
Dato in pasto alla massa e attraversando una democratizzazione estetica, il lusso perde il suo alone di esclusività, ma al tempo stesso diventa materia prima per nuove narrazioni collettive, da cui poi dipende e che si alimentano della sua eredità simbolica. I suoi codici non appartengono più solo a chi può permetterseli, ma a chiunque sappia reinterpretarli.
Ma la domanda resta aperta: se il brand non è più il fulcro del desiderio, cosa rimane davvero della moda di lusso?
di Claudia Potycki
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