GIRO DEL MONDO IN 300 BRAND
GIRO DEL MONDO IN 300 BRAND
Gli indipendenti si prendono una rivincita: non sarà che il vento del rinnovamento soffia proprio da qui?
SETTEMBRE 2024 - SGUARDI
“Alla gente piace sapere che dietro questi marchi c’è un prodotto vero, un’azienda vera, alcuni sono stanchi di entusiasmarsi per un brand che sa come vendere il sogno ma non lo trasforma mai in qualcosa di reale” – Carlo Capasa
Mentre la Fashion Week milanese per la SS 2025 imperversa con la sua frenesia – il lusso che spesso finisce per fare rima con cattivo gusto ed esagerazioni vecchio stampo – al Superstudio più di via Tortona c’è un’isola felice: il White, che mette in mostra più di trecento marchi di ricerca internazionali e piccoli showroom. È qui che abitano la creatività e l’originalità, è qui che torna il desiderio di comprare, è qui che si incontra la gente più cool, è qui che la personalità torna ad essere al centro. Se i grandi nomi della moda sono in una situazione di stallo, dominati dalle grandi corporazioni, la freschezza circola tra i brand indipendenti e le realtà di nicchia, svincolati dai trend e dai ritmi serrati delle produzioni e dall’omologazione.
Che poi cosa ne facciamo di T-shirt tutte uguali di brand diversi ma con lo stesso font?
Quest’anno il titolo dello show è “Signs of the Time”, indicativo. Segno dei tempi vuol dire nuovi modi, svolte, cambiamenti e nuove abitudini. Questo è un punto molto importante, perché come dice Robert Williams in un articolo su Business of Fashion: “gli acquirenti, i rivenditori e persino i designer e i giornalisti si stanno stancando dell’attenzione all’immagine e al branding alimentata dai social media”.
In cosa vincono i brand indipendenti? Autenticità, integrità estetica e creativa e comunicazione di valori, il tutto con un prezzo medio.
Così decido di vincere la timidezza e vado a fare quattro chiacchiere con i brand che più attirano il mio sguardo. Incontro Alto Milano, di cui mi colpiscono subito i costumi da bagno, una campagna scattata in Liguria e i bikini a righe leggermente glitterati. Il brand è nato in seno all’azienda Facenti di Brescia, che crea calze dal 1923. E si sa, dalle calze ai costumi è un attimo. Chiedo alla giovanissima designer che cosa rappresenta per lei la meraviglia, mi risponde: “tutti i dettagli e le piccole cose, che poi sono il filo conduttore di tutto quello che facciamo”.
È poi la volta di Vanessa, per Bavash, brand inglese di accessori prodotto in Portogallo; la sua sembra una storia uscita da un romanzo di Kipling. Da piccola ha vissuto con il papà diplomatico in Egitto, Liberia e India, da qui le contaminazioni etniche che altro non sono che la storia della sua infanzia. Crochet, suede, rafia, ricami, conchiglie, orecchini fiore e stella di mare ma anche kaftani e bluse ricamate. Vorrei tutto!
Mi sposto metaforicamente in Brasile, più precisamente a San Paolo, e scambio due parole con Adriana Degreas, dell’omonimo brand. Mi attirano subito le silhouette Anni ‘70, gli abiti lunghi con motivi geometrici, le fantasie ad affresco per una moda mare chic dai richiami vintage; mi vengono in mente le evoluzioni artistiche d’avanguardia, la Tropicalia e Bahia.
Seguo l’istinto e trovo Augusta, il brand di scarpe di Madrid. La mia mente si proietta subito a Malasaña, al Parque del Retiro e al Museo Thyssen-Bornemisza con le sue sale rosa. Chiedo il perché del nome del brand. Augusta è il nome di una donna forte, mi spiegano. Ballerine, Mary Jane, mocassini, kitten heels, mules create per donne che lavorano, che camminano tanto e che così possono sentirsi cool dal mattino alla sera. Ho lasciato il cuore su un paio di ballerine in cavallino a fantasia mucca con cinturino.
Salto in Sudafrica e incontro Mors, il brand with a purpose di Cape Town che produce bellissimi maglioni colorati oversize in mohair. La storia di Mors è nobile e mixa stile, sostenibilità ed etica, una moda lenta che si impegna a coinvolgere nella produzione le comunità locali e le mamme single. La parola più distintiva di questo brand è “ubuntu”, che deriva dalla lingua Bantu e indica un modo di vivere dell’Africa sub-sahariana che significa “benevolenza verso il prossimo”. Abbiamo tutto da imparare.
In un’intervista, Sara Sozzani Maino ricorda che “avere un piccolo brand non è un’operazione semplice, si vive in una terra di mezzo, perché il mercato non aiuta le piccole iniziative” eppure, nonostante tutte le difficoltà, l’innovazione viene da qui, perché se fossimo dominati dai grandi colossi la proposta sarebbe decisamente standardizzata.
Mentre i brand indipendenti sono gli interpreti naturali delle micro tendenze, almeno finché i loro valori non vengono fagocitati dalle logiche del business. Ma non è forse questa la naturale evoluzione? Eppure, passando al White si coglie ancora qualcosa di inedito.
Del resto, Kate Bush ci aveva avvertito: “Don’t give up!”.
di Francesca Russano
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